L'autore

Andrea Carlo Pedrazzini

 

Vive e lavora in una casa altissima a Milano, dove è nato nel 1958, ma in una casa più bassa.

Dopo gli studi classici e di critica d’arte, lavora come illustratore in bianco e nero presso Alfabeta, la Gola, Baldus, il Sole 24 Ore, l’Autre Journal, Linea d’Ombra, Esquire, Sud e altri.

Ha esposto in due edizioni di Milanopoesia, in diverse rassegne d’arte contemporanea e gallerie italiane, affezionandosi soprattutto alla Galleria dell’Incisione di Brescia.

Ha insegnato illustrazione e semiologia presso l’Istituto Europeo del Design. Dal 2000 lavora anche a produzioni proprie e soprattutto al De Bestiarum Naturis, un gigantesco bestiario dove le centinaia di disegni a tratteggio si espandono in altre opere, letterarie, artistiche o multimediali.

De Bestiarum Naturis

intervista immaginata

  • È vero che disegni il De Bestiarum Naturis (DBN) dal 2000?

Sì, e ci sto ancora lavorando.

 

  • Lavori soltanto al Bestiario?

No, sono impegnato in altri progetti, come la serie di fotografie BW, le Tavole Nere, i Riassunti Illustrati, gli Studi di Anatomia Affettiva, Enciclorama, il Dolce Naufragio, gli E-collages, i Disegni del Penultimo, le Forme di vita Presunta, il ciclo Happy Days ecc. Alcuni di questi progetti sono già stati completati, mentre altri devono ancora cominciare. In ogni caso, come si vede, difficilmente lavoro a opere singole. Preferisco lavorare sulla serie, sulle varianti, sulle consecutività tra le opere. E poi collaboro con altri artisti, specialmente con musicisti contemporanei.

 

  • Come dobbiamo affrontare il tuo bestiario?

Forse il modo più semplice è quello di immaginare di essere in una grande casa con moltissime porte. Ogni bestia, ogni titolo è una porta che si apre su una nuova stanza...cioé su una storia o su un’idea di natura, di dialogo, di vita. Questo lungo elenco di bestie immaginarie, questa sequela di entrate, ci introduce a piccoli universi spesso connessi tra loro e orientati verso nuovi paesaggi da esplorare. Ognuno può aprire la porta che preferisce e uscirne quando vuole, ma può anche esplorare il reticolo di rimandi e somiglianze tra le varie stanze. Ogni persona farà un viaggio diverso perché non c’è un modo giusto di attraversarlo: l’ordine di presentazione in home page dei vari titoli è del tutto casuale, quindi anche chi volesse percorrere proprio quell’ordine, farebbe comunque un viaggio casuale.

 

  • Quindi, è un bestiario-labirinto?

Di certo, il De Bestiarum Naturis non è semplicemente una collezione di bestie esemplari: è la cornice dentro cui inserisco delle opere. Un contesto che non ha intenzioni enciclopediche e che, paradossalmente, non riesce nemmeno a contenere l’intera opera. Per rendere più visibile questa dimensionalità complessa del bestiario, abbiamo anche pensato a una piccola collana di libri (anche se a tiratura microscopica) e a mettere delle cose su YouTube o altri social. Alcune parti del bestiario staranno sulle pareti, altre in teatro, altre ancora su un tavolo o in un libro o in rete o per terra.

 

Comunque, non ci sarà mai un contenitore fisico che permetta di vedere l’opera tutta insieme. E questo non solo perché è grande e voluminosa ma soprattutto perché sfugge da tutte le parti. Anche quando penso di aver terminato la realizzazione di una bestia, infatti, questa spesso riparte sotto altre forme, magari dopo anni. Non ho nessun controllo sull’ampiezza o sulla forma del De Bestiarum Naturis. In questo senso, può essere inteso come un labirinto multiviario, cioè come un labirinto in cui l’esploratore può perdere il senso del percorso. Per fortuna, però, da qui è poi facile uscire. Non è certamente un labirinto-prigione. È un labirinto da cui uscire e rientrare molte volte.

 

  • Come procede il DBN?

Per me l’idea di progetto è importantissima. Sono convinto che pensare con calma sia una delle cose più importanti e creative che un essere umano possa fare. È anche una delle più faticose, però...Le altre mie opere hanno una forte impianto progettuale (che si modifica, naturalmente, mentre l’opera procede) ma il DBN cresce di suo, come cresce la natura. Il progetto è sempre capace di modificarsi ad ogni istante, senza più sapere chiaramente da dove era partito e però senza perdere lucidità. Per varianti improvvise o lente mutazioni, per incontri casuali e somiglianze, per piccole o grandi catastrofi... segue una scia di bellezza che lo abbaglia e lo fa procedere, che gli dona la vista ma poi lo perde nel caos, prima che la lucidità torni a creare un’idea. Siamo un po’ nella posizione di Adamo quando nell’eden deve dare un nome a tutto quello che vede: da dove cominciare? Come separare o unire le cose?

  • Ma quindi l’opera non ha un senso compiuto? È solo una sequenza di titoli separati?

Al contrario! Il DBN è un’opera di opere che cresce su sé stessa e da sé stessa trova i significati e i propri fondamenti. Pensa a un giardino. Nell’antichità (e per antichità intendo anche tutto il ventesimo secolo, fino agli anni ‘70) ogni giardino aveva delle aiuole, dei vialetti, dei muretti... le essenze erano scelte con cura e, insomma, a parte certe esperienze inglesi, si cercava di dare un ordine mentale preciso al disordine naturale della natura. Non è questo ciò che intendo per progetto, però. Questo è un modo per addomesticare la varietà e rivela una mentalità che, pur essendosi molto evoluta nel tempo, è ancora quella che ha portato agli zoo (e anche ai grandi musei universali ed enciclopedici!).

La cultura contemporanea invece accetta il disordine e la complessità, perché la conoscenza più utile e bella è quella che si butta dentro il difficile e ci sguazza, senza renderlo facile, accettando le mille sfumature della complessità, creando frasi aperte e provvisorie. Welcome to the difficult art, per parafrasare Laurie Anderson. Ma questa era già la lezione meravigliosa di Leonardo, di Redi, di Leopardi e di molti altri che, cercando il vero, trovano l’arte. E viceversa. A un certo punto, io ho fatto viceversa... partito da studi umanistici, cercando l’arte, ho scoperto il pensiero scientifico e ho cominciato una strada difficile e piuttosto solitaria.

 

  • Di solito infatti la gente pensa che la scienza sia noiosa o troppo difficile e che il coraggio sia romantico, non una cosa da nerd.

Tra scienziato e artista, tra tappezziere e chirurgo, non ci sono differenze insormontabili, se sono persone che stanno facendo liberamente il meglio di quello che possono fare. Tutti possono essere enormemente creativi e innovativi, dirompenti e precisi, in qualunque campo.

L’idea ancora molto diffusa di genio come caratteristica tipica dell’artista mi piace pochissimo, perché sminuisce la genialità altrui, che è spesso pazzesca; e mi piace poco soprattutto se legata a un’altra idea, che è una stanca sopravvivenza dell’idealismo: l’idea del primato dell’arte sulle altre forme di creatività o conoscenza. Crediamo davvero a un primato dell’artista su Galileo, su Darwin, su Einstein, su Popper? Di fronte a questo tipo di persone l’artista non ha proprio nessun primato, anzi ha (o dovrebbe avere) un debito gigantesco...

 

  • Ma l’artista ha un ruolo e una visione diversa da quella dello scienziato, no?

In parte è ovviamente vero: il lavoro liberamente creativo ha spazi di soggettività e di improvvisazione molto ampi, ma la convinzione che sia radicalmente diverso di solito è molto forte in chi non sa come lavora uno scienziato, come funziona la serendipità anche in campo scientifico o non ha chiaro quanti tipi di scienziati siano possibili o, anche, quanti diversi punti di vista ci siano tra gli stessi scienziati o tra gli artisti. Non credo che possa esistere uno statuto teorico tale per cui, come fu durante l’idealismo, l’arte venga nettamente separata dalla scienza, sopravanzandola. Non credo possa esistere e non credo, soprattutto, che sia necessario o giusto cercare questa condizione di separatezza. Tutt’altro. A me pare che il mondo, la realtà, la sensibilità umana, la voglia di capire e di raccontare la verità per come la si capisce invece di dividersi in una gerarchia di diverse visioni, sia un gigantesco unicum d’indagine che tutti possono esplorare, a patto che collaborino e che lo facciano a partire da quel molto che hanno in comune. Chi non collabora, chi non mescola i propri saperi con quelli degli altri resta indietro e diventa perfino ridicolo se, oltre a ciò, pretende di essere ancora avanguardia, provocatore del nuovo o influencer di chissà cosa. Il problema da affrontare non sono i confini tra le conoscenze o tra le attitudini, e nemmeno continuare con le provocazioni disperate degli artisti geniali;  il problema è la serietà, l’autenticità di chi fa le cose e di chi produce pensiero e senso collettivo.

 

  • Ma dài! l’arte non è serietà...anzi, induce forti reazioni soggettive, emozioni, gioco...no?

Sì, ma le emozioni sono ovunque e la leggerezza appartiene a tutti! Un tramonto, una persona in difficoltà, la nascita di un figlio, la potenza di un fulmine, un cucciolo, un’automobile che ci sfiora mentre attraversiamo la strada, un sogno che non va via...viviamo già talmente dentro le emozioni che questa parola non significa quasi nulla quando facciamo qualcosa di creativo, perché sempre e su ogni cosa abbiamo una reazione sintetica, cioè emotiva...la cosa interessante comincia intorno alle emozioni, quando una persona – oltre a emozionarsi - comincia a capire, a separare, a innamorarsi di come le cose cambiano e di come questo cambiamento sia la radice prima della bellezza. In altre parole a me importa poco di quanto la mia visione del mondo o la mia emozione del momento assomigli o sia espressa dal lavoro creativo di qualcuno; questo può essere un atteggiamento consolatorio o, più spesso, narcisista. A me importa quando non coincide con la mia, quando non riesco a immedesimarmi completamente, quando sento che qualcosa non funziona, un distacco...il lavoro che faccio da spettatore non è far coincidere le visioni e nemmeno togliersi dal dialogo nel vedo-quel-che-vedo, nel provo-un’emozione-e-mi-basta); dev’essere quello, difficile, di far tornare i conti: questa è la cosa interessante, perché significa che il lavoro creativo parla, parla in una lingua che almeno in parte conosco e attraverso la quale posso decidere cosa continuare a esplorare, nel lavoro che osservo e in ciò che vivrò dopo.

 

  • L’arte produce anche spaesamento.

Ecco, questo mi piace molto di più, per cominciare. Ma se nello spaesamento non immetti dei sassolini per ritrovare una strada, hai solo fatto intrattenimento, arteinment. L’arte in realtà produce pensiero nella sua accezione più ampia, non bellezza. La bellezza è il pensiero quando viene riconosciuto.

Tornando al coraggio, c’è stato per esempio un periodo avventuroso, tra ‘500 e ‘600, in cui chi guardava dentro i primissimi  microscopi correva sul serio il rischio di perdere il proprio equilibrio mentale. Tutte le conoscenze filosofiche, religiose e perfino l’evidenza del buon senso diventavano inutili o sbagliate semplicemente guardando dentro un tubo con un piccolo sistema di lenti in fondo. Con il microscopio o il cannocchiale la capacità immaginativa delle persone ha avuto un impulso gigantesco, quasi completamente snobbato dalla cultura artistica e dal senso comune. è in quel momento che l’umanesimo ha cominciato a invecchiare. Una parte della cultura umanistica si è infatti macchiata di quelli che oggi mi appaiono come dei delitti intellettuali gravissimi, quali la sopravvalutazione dell’argomentazione rispetto alla dimostrazione, la prevalenza dell’autorità sulla verità fattuale, la vittoria dell’ideologico rispetto al pragmatico. Tutto ciò, mentre per secoli la scienza (che peraltro vinceva battaglie culturali decisive con Galilei, Newton, Darwin e altri) era relegata a sapere strumentale e sussidiario, negandole – come succede ancora oggi in molti ambiti culturali italiani – la realtà ormai indiscutibile di pensiero alto, completo, necessario e autoriflessivo nella comprensione del mondo. La famosa triarchia hegeliana di religione-arte-filosofia come vertice della coscienza umana mi appare oggi come un vecchiume teorico che ha rinforzato i miti variamente declinati della perfezione gerarchica, della purezza e dell’infinitezza teleologica, negando realtà e validità intellettuale al cambiamento senza arrivo, alle varianti non-dialettiche e all’evoluzione casuale delle forme, per come si svolge in natura.

  • Ecco, la vita. Non bastavano gli animali reali? Perché disegni animali immaginari?

Perché li incontro dappertutto. Ho cominciato a trovarli nei libri antichi e nelle cattedrali, certo, e ad appassionarmi follemente ai diversi bestiari antichi (partendo dal Fisiologo, tanto che il Pianeta Somigliante ha come protagonista principale proprio un Fisiologo immaginario)...e poi le wunderkammer, i repertori delle imprese cinquecentesche, i gabinetti delle meraviglie, i primi manuali, gli almanacchi... Tutto questo, insieme alla crescente ammirazione per gli incisori scientifici antichi, mi ha portato a fare delle considerazioni sul modo di ”vedere” e inventare i mostri e quindi ho poi cominciato a vederli nei posti più strani. Li ho incontrati nelle ombre, nelle somiglianze, nelle parole e in quasi tutti i segni involontari che la natura o le città ci propongono... perché mi commuovono tutti i segni che sbiadiscono nel tempo, che si decompongono mentre ancora comunicano. Ricordo che una delle primissime opere che, da adolescente, avevo cominciato a scrivere era il Romanzo Dimenticato, che trascriveva tutti i bigliettini che trovavo in casa e che erano stati scritti da qualcuno della famiglia: biglietti della spesa, promemoria, avvertimenti di chiamate telefoniche o di uscite, appuntamenti, biglietti di scuse o di amore. Tutte parole destinate all’oblio e che volevo salvare. In effetti, la cultura ha come primo scopo di salvare il tempo delle cose, oltre che delle persone. Afferrare chi sta annegando, tirarlo in barca, dargli qualcosa da respirare: solo questo è il disegno. E non è detto che gli artisti siano i migliori a fare questa cosa. È comunque un’attitudine che mi porta a cercare di salvare anche i singoli bagliori, le ombre notturne, le file di sassolini, le chiazze umide per terra. Quando fotografo, fotografo principalmente quello che c’è per terra: segni, segnali, orme, pozzanghere, crepe...alcune di queste cose sono poi diventate bestie del DBN. C’è poi da ricordare che è facile incontrare cose che si devono descrivere o mostrare per la prima volta quando il proprio atteggiamento verso la realtà è quello di Francis Ponge, quando dice che la miglior cosa da fare è considerare sempre le cose come sconosciute, fermarsi a guardarle con uno sguardo completamente aperto al nuovo e ricominciare tutto daccapo. L’arte è questo daccapo.

 

  • Tornando al bestiario, che tecniche usi?

Quasi tutte le singole bestie (e qui ce ne sono più di quattrocento) sono costituite perlomeno da un disegno a china; molte sono corredate da un testo, non poche sono legate ad altre opere fatte appositamente e che, in qualche modo, espandono la bestia al di fuori del DBN. In ogni caso, all’inizio l’idea era quella di fare un bestiario che somigliasse a una raccolta di immagini fine-ottocentesca (alla Klinger o alla Ernst): stesse dimensioni, stessa tecnica, stessa atmosfera e una leggera progressione evocativa. Fin da subito, però, i formati si sono modificati, si sono aggiunte altre tecniche (sempre su carta, però) e le fonti d’ispirazione si sono moltiplicate e complicate.

 

  • Quanti animali hai disegnato?

Ho in cantiere 999 bestie ma non penso che arrivare davvero a 999 disegni fatti e finiti sia un vero obiettivo per me, perché si tratta di un numero assolutamente senza significato: sembra simbolico ma non lo è. Serve a far sì che si finisca con un numero non del tutto anonimo, che si avvicini a mille, senza però raggiungerlo. Cioè senza chiudere. In realtà, lavorando attraverso continui ripensamenti e correzioni, non posso essere mai certo che una mia singola bestia sia davvero finita. Potrei ricominciare a lavorarci anche a vent’anni di distanza, improvvisamente. È successo più di una volta, e nel sito si vede chiaramente perché indico sempre tutte le date di lavorazione. E dunque nemmeno per il DBN ho un modo per dire che è finito, se non trovando una chiusura che in realtà non chiude nulla. Il numero 999 magari sarà anche superato, non so...oppure, non riuscirò mai ad arrivare a 999 bestie completate...ecco, questo è molto molto probabile, ormai.

 

  • Per fare un’opera del genere avrai lavorato tantissimo, in tutti questi anni.

No, in realtà sono molto pigro e dispersivo. Lavoro sul DBN da ben vent’anni anche perché ho lunghi periodi di pausa in cui mi scoraggio, faccio altre opere o non faccio nulla di artistico.

Gli artisti hanno anche altro da fare. Chi dice il contrario dimentica che il “fare altro”  finirà nell’arte, prima o poi. L’idea che l’arte sia il sufficiente nutrimento di sé stessa, per me, è una sciocchezza. La mia stessa arte è certamente un nutrimento necessario per me ma non è sufficiente. Bisogna vivere e sapere delle cose nuove, bisogna mettere nell’opera ciò che non si sa. L’artista fa quello che non sa fare: è lì che si distingue dalle altre creatività. L’artista non sa niente, o molto poco, di quello che sta facendo. Mentre fa una cosa, crea le regole che la strutturano, dunque...come può saperle prima? Per questo deve sapere altro, vivere altro, essere altro. L’artista ha cose più importanti da fare che fare arte. Egli non è esentato dall’essere una brava persona, dal caricarsi sulle spalle le sofferenze o le speranze di chi gli è vicino e di chi vive dall’altra parte del pianeta; non è esentato dal sapere letteralmente tutto, tutto il resto...solo così potrà andare a tentoni nella foresta e trovare lo stesso una strada. L’artista non sospende le ragnatele tra gli esseri umani, anzi...per molti aspetti le infittisce. Chi crede ancora che l’artista sia un sublime misantropo, un ispirato e inconsapevole creatore di futuro fa un torto all’arte, e un regalo a chi usa l’arte per altri scopi.

 

  • Perché lo definisci un “bestiario moralizzato”?

È un bestiario moralizzato perché è ironico, a tratti satirico, parla sempre di altro, non è autoreferenziale, non solo; e poi perché, come nei bestiari medievali, ci sono i testi, che in parte raccolgo ne il Pianeta Somigliante, e questi testi sono alla disperata ricerca di senso, di onestà, di verità. Questa ricerca, ma soprattutto questa testarda disperazione nella ricerca, è la moralità che penso sia endemica al fare creativo.

 

  • Perché le storie legate agli animali del DBN sono - come dicevi - raccolte a parte, ne il Pianeta Somigliante, un libro senza illustrazioni?

Per varie ragioni. La prima era il bisogno di sfuggire alla logica testo-illustrazione, tale per cui il disegno sarebbe apparso subordinato al testo verbale o, nel caso contrario, più raro, il testo sarebbe apparso come una didascalia al disegno. In entrambi i casi, non si sarebbe salvata l’autonomia che le due opere avevano tra loro. La seconda ragione sta nel fatto che a una buona parte dei disegni ho affiancato un testo che tutto sommato non lo presuppone. La storia del Veleno, per esempio, può essere letta benissimo anche senza sapere che lo stesso autore, negli stessi anni, ha fatto dei disegni con lo stesso titolo. Per questo, il disegno del DBN spesso “stona” con il testo verbale, nel senso che il disaccordo che è funzionale alla complessità generale dell’opera non funzionerebbe altrettanto bene all’interno di un libro. L’ultima parte di lavoro del DBN, quella che inizio insieme alla creazione del sito, consiste proprio nell’analizzare cosa separa le due immagini dello stesso animale e percorrerne creativamente il confine con opere che ne espandano il senso.

 

  • A chi ti sei ispirato nel fare il DBN?

Le mie fonti di ispirazione sono molte e si richiamano a diverse tradizioni visive e letterarie. La principale ispirazione viene dalle illustrazioni scientifiche sei-settecentesche e specialmente quelle relative al lavoro di Francesco Redi. E non solo per le cose disegnate, ma anche e soprattutto per la libertà compositiva e di organizzazione della spazialità che questi primi illustratori scientifici hanno dovuto inventarsi. Poi naturalmente mi hanno influenzato Leonardo e il pensiero tecnico tardomedievale, le miniature medievali e da qui il linguaggio “comico”, che poi mi porta a Windsor Mc Cay, a Keith Haring e a molti altri; legati al mondo medievale, oltre a Petrarca, maestro della sublime variazione, trovo Baltrusaitis, Borges, Eco, maestri inarrivabili. Amo molto William Hogarth e insieme a lui mi viene in mente Laurence Sterne, maestro della divagazione e fonte forse di Saramago, maestro del pensiero etico e del flusso di sensatezza. Ancora inglese è un’altra mia guida, Charles Darwin, la cui teoria dell’evoluzione ha implicazioni estetiche importantissime, anzi decisive. Implicazioni che a un certo punto hanno ribaltato il DBN da cima a fondo, cominciando a dargli quella che spero sia la sua forma finale. Ma ci sono mille altre influenze...nel tratteggio c’è l’ammirazione per Durer, per l’illustrazione antica e la grafica ottocentesca, Klinger e Kubin, fino ad arrivare a Gourmelin e, su un’altra strada, al chiaroscuro meraviglioso e potente di Mattotti o quello più timido e spettinato di Matticchio. Adoro Klee, Munari, Baruchello e mi affascinano Gribaudo, Mullican, Kiefer, Chen Zen e Boltanky, per motivi ovvviamente diversi. Ma devo citare anche Rabelais e mille altri romanzieri strambi ed eccentrici fino a Mervyn Peake, illustratore e romanziere che in certi punti della sua saga di Gormenghast mi ha illuminato e ispirato come nessun altro. Mi viene in mente, poi, che l’attitudine di Leopardi mi è sempre stata da guida e, insieme a lui, l’illuminismo milanese, non astratto, concreto, sciolto. Seguire il vero per arrivare al bello....Naturalmente, le influenze sono molte di più e molto contradditorie. Difficile riassumerle.

 

  • Quanto è stato importante per te il tratteggio a china?

Beh, almeno fino a metà degli anni ’10 il tratteggio a china con penne e pennini è stata la mia cifra stilistica principale. Ricordo che nel 1987 portai a Gianni Sassi i miei primi disegni a china, vagamente ispirati alla “Settimana di Bontà” di Ernst ma anche alle prime opere di Domenico Gnoli. Il fatto che Sassi fin da subito abbia pubblicato tutti i disegni al tratto che gli ho portato per le sue riviste o per le manifestazioni artistiche e di poesia che organizzava, ha segnato la mia storia creativa.

Per molti anni mi sono misurato con questa tecnica, tanto che quasi tutta la prima parte della mia raccolta di pensieri, Parole sul buio, è dedicata al tratteggio. Attraverso i tratti in diagonale o dritti, a doppio incrocio con o senza tratto caotico, attraverso i tratti con o senza sollevamenti, con alternanza di pennini o rinforzi a grafite, attraverso i pennini morbidi per i contorni e rigidi per gli sfondi immoti, e mille altri studi d’uso, si apre un intero universo di possibilità nuove e di problemi da risolvere per arrivare, seguendo una strada molto diversa da quella suggerita nei manuali di illustrazione (che predicano la lentezza e la precisione) a un tratteggio più limpido e scorrevole ma, contemporaneamente, coprente e pieno di luci/ombre. Il problema è comunque soprattutto mentale, immaginativo. Prima di tratteggiare, bisogna scegliere le fonti di luce, la corsa dei raggi e le parti da mostrare (parlo sia dei volumi sia delle cose da nascondere nel buio o da far affiorare alla luce, alla Caravaggio). I raggi di luce non sempre devono essere dei fasci potenti ma, di certo, la luce deve avere una sua direzione e una sua velocità, attraverso le quali mostra, parla, spiega. Viaggia, che è la cosa che la luce fa meglio: viaggiare e rimbalzare. Il tratteggio, poi, deve essere capace di integrare le texture delle superfici con le ombre create dalla corsa della luce. In questo modo i rimbalzi di luce e gli sbattimenti delle ombre riescono a descrivere gli oggetti con grande dettaglio e forza evocativa.

 

  • Va bene...terminiamo qui?

Certo, abbiamo già parlato troppo.